Saira Liaqat dopo l'intervento di chirurgia plastica |
La cannella
aiuta le partorienti. Mia madre lo sapeva, e spesso portava a qualche vicina un
piatto o dei dolci preparati con la cannella. Quando si girava io tuffavo il
naso fin dentro la ciotola che la conteneva, e respiravo a pieni polmoni il suo
profumo dolciastro, la polvere aveva lo stesso colore di quella della strada,
ma ricordava mia madre, le sue amiche, i vestiti che cuciva. Qualche volta
starnutivo da quanta ne respiravo, e mia madre mi sgridava, io dicevo che non
avevo fatto niente con la cannella ancora sulla punta del naso, e lei faceva
una faccia serissima, ma a stento riusciva a non ridere. Le sue risa erano come
le ali bianche di una farfalla: duravano poco e si posavano su ogni cosa. Mio
nonno ripeteva spesso che avevo lo stesso sorriso e lo stesso cuore.
Quando mio padre arrivava con il suo risciò e assaggiava i biscotti
preparati da mia madre anche lui sorrideva e indicava scherzosamente il mio
naso ricoperto di polvere di cannella.
Ma non ero io ad assomigliare al sorriso di mia madre, era la mia vita
che se ne riempiva, somigliava alle ali della farfalla, veloce e lieta, al
fiume quando c’è la corrente.
Imparavo a ricamare le farfalle sui cuscini, sulle lenzuola, con le ali
tese e che si poggiavano sui fiori. I fili colorati si intrecciavano nel mio lavoro
come le persone alla mia vita, i progetti nella mia mente e i sogni nel mio
cuore.
Ero, allo stesso tempo, disegnatrice e realizzatrice degli strani esseri
che prendevano vita sulle lenzuola, davo loro un corpo, una consistenza e una
personalità.
Il disegno di una farfalla, di un fiore, non è banale, è la presa nella
rete di un’essenza che attraversa e supera la figura che vediamo, la rende
altro da sé. Così, i petali dei miei fiori non erano solo rosa, ma
rappresentavano il desiderio che la stagione non si rovinasse, che non
arrivasse la pioggia a farli marcire e si distinguevano, grazie alle loro
passioni, da qualunque altro fiore, così come ogni persona si differenzia
dall’altra e ogni seme ha un profumo diverso.
E anche io, per quanto piccola potesse sembrare la mia esistenza, e
condizionata dalle scelte dei miei genitori, man mano che ricamavo davo voce
alla mia vita e ai miei sogni che, nella loro similitudine a quelli di
centinaia di ragazze, brillavano di una luce che apparteneva solo a loro.
Affondata dai miei ricami, riemergevo solo quando dovevo andare a
prendere l’acqua, andare a scuola, fare una commissione con le amiche; una
pausa un po’ più lunga durante la quale firmai nikkah.
Lo guardavo sottecchi, quell’uomo che avrebbe diviso la sua vita con me,
e speravo di intravedere qualcosa. Cercavo in lui i lineamenti di mia madre, il
sorriso di mio padre, scrutavo dolorosamente il suo volto alla ricerca di tutto
ciò che sognavo, senza pietà. I capelli scuri, folti, gli occhi neri come
l’essenza stessa del buio, che mi facevano tremare… i movimenti precisi, lenti,
fermi. La sua mano non tremava, teneva salda la penna e dipingeva la sua firma
con infinita perizia, ogni particolare, ogni svolazzo, veniva vergato due volte
perché fosse più nitido. Quasi mi pentì della mia firma nervosa e
scarabocchiata! Ma era poco il tempo per angustiarsi, adesso i miei sogni
potevano avere un volto e un nome.
Il carattere forte del mio sposo si evidenziò subito, quello stesso
giorno disse a mio padre che desiderava che avesse luogo il Rukhsati, perché andassimo a vivere
insieme, nonostante fossi molto giovane.
Il mio cuore palpitava, scalpitava di gioia: allora gli ero piaciuta!
Aveva visto il mio cuore oltre l’imbarazzo, la timidezza e il velo! Anche se
avevo avuto timore della sua serietà forse era solo un contegno che aveva
tenuto, e il suo cuore traboccava per me, come il mio per lui!
Mi svegliavo la
mattina con ardore nuovo, ricamavo con maggiore perizia ed ero più felice.
La mia storia sarebbe potuta continuare così, densa di aromi di cannella,
pepe e curry, affaticata dal lavoro, circondata da realtà quotidiane che tanto
amavo.
Mi chiedo se ogni donna, quando si trova nella sua cucina a preparare il
pranzo, si renda conto che basta un piccolo attimo di fiduciosa disponibilità,
perché la sua vita diventi un incubo e il suo unico desiderio diventi quello di
svegliarsi e di capire che è stato tutto un sogno.
Quell’uomo ha bussato alla porta di casa chiedendo dei miei genitori. Quando
aprì e lo vidi rimasi senza parole, la luce fuori abbagliava perché la casa era
in penombra, ma riconobbi subito i suoi lineamenti stagliarsi nitidi contro il
sole stesso; ero sicura che fosse lì per me: non aveva avuto il coraggio di
lasciarmi, voleva parlare ancora con mio padre, desiderava anticipare la
cerimonia, tenere le mie mani tra le sue.
Mi chiese dell’acqua e io la portai, inutile parlare del tremore della
mia mano, la consapevolezza che avevo che quello sarebbe stato un gesto
consueto nella mia vita: portare l’acqua a mio marito. Cosa c’è di più normale?
-
Ho sete.
Trafficai un attimo in cucina, ero enormemente emozionata, nella mia
testa rimbombava il tono calmo e asciutto della sua voce; cercavo un bicchiere
bello, il migliore che avessimo in casa, nonostante fossero tutti uguali. Versavo
lentamente l’acqua che la mattina ero andata a prendere alla fontana, in quel
momento, nell’attimo in cui gli porsi il bicchiere, mentre le sue mani gelide
incontravano le mie, appena fresche. Quel gesto, quel dovere che avevo compiuto
al mattino, cessava di essere quello di una figlia e acquisiva la dignità di
quello di una moglie.
Quasi ebbi freddo, le sue dita erano gelide. Come? Non gli si era
scaldato il cuore nel rivedermi?
Lo osservavo meglio, e notavo che non sorrideva. Nel mio abituccio da
casa forse dovevo essergli sembrata insignificante.
Mi rincuoravo perchè che in fondo non sapevo che sarebbe venuto, mi aveva
presa alla sprovvista, ma dal giorno in cui saremmo andati ad abitare sotto lo
stesso tetto sarei sempre corsa da lui, avrei fatto ondeggiare il mio vestito,
nei giorni di festa avrei fatto tintinnare i braccialetti, e lui avrebbe
ammirato le mie mani decorate. Non era forse questo il sogno che ricamavo sulle
lenzuola? Fu in quel momento, nel pieno delle mie fantasticherie ad occhi
aperti, che mi versò l’acido addosso.
Pensavo scherzasse, fosse acqua e non capivo il motivo della sua fuga.
Solo dopo qualche istante iniziò a bruciarmi il viso e tutto quanto il mio
corpo prese ad andare a fuoco. Mio nonno non sente, era lì con me e pensava che
mi fossi scottata cucinando, tentò di abbracciarmi ma il fuoco che avevo
addosso veniva come alimentato. Sono scappata fuori urlando, mentre si
scioglievano i miei vestiti, il mio volto, la mia bellezza, i miei sogni, i
miei sedici anni e tutta la mia vita.
All’ospedale hanno cercato di riaprirmi gli occhi e le labbra, era come
se il mio volto fosse stato estratto dal fango primordiale, abbandonato da
Allà, informe, senza una destinazione, senza un disegno, figlio di acido e di
odio. Mio marito mi ha acidificata nell’anima, perché è stata anche l’anima che
ha perso la forma, l’acido mi ha attraversato il cuore.
Mi avevano raccontato che spesso i mariti fanno questo alle mogli se loro
non li rispettano, se hanno un amante o per altre cose che secondo me non
basterebbero comunque a dare una motivazione, ma io non so ancora perché mi è
successo questo, possibile che lui abbia pensato che gli fossi infedele? Sola
andavo a prendere l’acqua, a scuola ero con le amiche... Ma poi perché l’avrei
dovuto tradire? Non ha visto la fiducia, la dedizione nel mio sguardo durante
la firma? Sua madre non gli ha raccontato dei ricami che facevo per la nostra
casa?
Ma forse lui è pazzo, lo è sicuramente: dice che sono sua moglie, mi
vuole e desidera che lo sposi definitivamente. Ma come, sposarlo? Adesso?
Perché? Il mio cuore gli apparteneva, io ero la sua! Perché non mi ha voluta
così com’ero? Lui ha stracciato il mio volto, come poi io ho stracciato la
camicia che avevo preparato perché lui mi vedesse. L’avrei messa verde e oro.
Me l’ero cucita addosso, perché volevo essere bellissima ai suoi occhi. C’era
una grande farfalla sul davanti che spiegava le sue ali alla vita, sotto avevo
ricamato qualcosa che la conteneva, un barattolo che si intravedeva appena. Ma
nessun uomo mi vedrà mai cosi. Lui ha preso il barattolo prima che la farfalla
vi si affacciasse e l’ha schiantato a terra lacerandone le ali. Come può
qualcuno volermi ancora? Quale follia è questa?
Non ricamo più. Le figure che prendevano l’anima dalle mie mani sono
state cancellate anche loro, scappate via con tutte le cose che credevo che
avrei sempre avuto.
Adesso per me il mondo è solo per metà in luce, l’altra
metà è notte. Lo vedo bene perché è solo uno l’occhio che apro al mattino.
Questa è una verità che non tutti conoscono. La maggior parte delle
persone, pur sapendolo, pensa che la notte sia solo una coltre buia, invece è proprio
l’assenza della luce; e una volta, prima che queste realtà si confondessero
fuori e dentro di me, anche io vedevo così. Ora vedo anche come gli uomini sono
buoni e cattivi, della notte o della luce, solo che loro si mescolano per le
strade senza che nessuno possa fare niente per distinguerli.
E adesso prego, sogno, non piango perché non ne sono più capace. Vedo il
mondo intero che ha una forma e solo io non ce l’ho, sono diventata un mostro
che tutti odiano, tranne la mia famiglia.
Adesso mia madre fa i biscotti, io sto in cucina ad aiutarla e vedo i
suoi occhi asciutti e rossi. Vedo che quando avvicina la sua mano per
accarezzarmi trema, mi chiedo quanto disgusto provi, quanto le faccia male
vedere qualcosa che è cresciuto in lei essere così ripugnante, il suo sorriso
mi manca. La casa nuova, che tra tante difficoltà abbiamo acquistato è come
maledetta, nessuno più gioisce. Nonno da quel giorno cerca ancora di
abbracciarmi, dice che sono la luce della sua casa, ma questo mi rende ancora
più infelice, perché so che mente, che fa finta di non vedere com’è ridotto il
volto che tante volte ha accarezzato, mio padre non ride quando mi guarda, ma
dentro di se si maledice per aver consentito a quell’uomo di entrare nella
nostra vita, chiuso in un silenzio, nella condanna più forte che potesse
infliggersi: il distacco da mia madre e da me, il silenzio, il nulla.
Ma se mi avvicino al foglio fatico, per focalizzare devo avvicinare e
allontanare la carta diverse volte. Con un solo occhio non riesco a vedere,
tutto “mi sembra”, e anche adesso sembra che i segni sulla carta si inseguano
senza precisione, punti di un ricamo malfatto, non progettato prima, inesperti e
gettati a caso.
Non ho più niente, sono stata cancellata; rifletto, ricordo i miei
disegni sulle lenzuola e penso che, come nel ricamo ogni punto ferisce il
precedente nel suo cuore, lì dove è più vulnerabile, così l’essere inumano pugnala solo chi è indifeso.
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