18 gennaio 2012

Saira Liaqat

di Miriam G. L. Serranò


Saira Liaqat dopo l'intervento di chirurgia plastica

La cannella aiuta le partorienti. Mia madre lo sapeva, e spesso portava a qualche vicina un piatto o dei dolci preparati con la cannella. Quando si girava io tuffavo il naso fin dentro la ciotola che la conteneva, e respiravo a pieni polmoni il suo profumo dolciastro, la polvere aveva lo stesso colore di quella della strada, ma ricordava mia madre, le sue amiche, i vestiti che cuciva. Qualche volta starnutivo da quanta ne respiravo, e mia madre mi sgridava, io dicevo che non avevo fatto niente con la cannella ancora sulla punta del naso, e lei faceva una faccia serissima, ma a stento riusciva a non ridere. Le sue risa erano come le ali bianche di una farfalla: duravano poco e si posavano su ogni cosa. Mio nonno ripeteva spesso che avevo lo stesso sorriso e lo stesso cuore. 

Quando mio padre arrivava con il suo risciò e assaggiava i biscotti preparati da mia madre anche lui sorrideva e indicava scherzosamente il mio naso ricoperto di polvere di cannella.
Ma non ero io ad assomigliare al sorriso di mia madre, era la mia vita che se ne riempiva, somigliava alle ali della farfalla, veloce e lieta, al fiume quando c’è la corrente.
Imparavo a ricamare le farfalle sui cuscini, sulle lenzuola, con le ali tese e che si poggiavano sui fiori. I fili colorati si intrecciavano nel mio lavoro come le persone alla mia vita, i progetti nella mia mente e i sogni nel mio cuore.
Ero, allo stesso tempo, disegnatrice e realizzatrice degli strani esseri che prendevano vita sulle lenzuola, davo loro un corpo, una consistenza e una personalità.
Il disegno di una farfalla, di un fiore, non è banale, è la presa nella rete di un’essenza che attraversa e supera la figura che vediamo, la rende altro da sé. Così, i petali dei miei fiori non erano solo rosa, ma rappresentavano il desiderio che la stagione non si rovinasse, che non arrivasse la pioggia a farli marcire e si distinguevano, grazie alle loro passioni, da qualunque altro fiore, così come ogni persona si differenzia dall’altra e ogni seme ha un profumo diverso.

E anche io, per quanto piccola potesse sembrare la mia esistenza, e condizionata dalle scelte dei miei genitori, man mano che ricamavo davo voce alla mia vita e ai miei sogni che, nella loro similitudine a quelli di centinaia di ragazze, brillavano di una luce che apparteneva solo a loro.
Affondata dai miei ricami, riemergevo solo quando dovevo andare a prendere l’acqua, andare a scuola, fare una commissione con le amiche; una pausa un po’ più lunga durante la quale firmai nikkah.
Lo guardavo sottecchi, quell’uomo che avrebbe diviso la sua vita con me, e speravo di intravedere qualcosa. Cercavo in lui i lineamenti di mia madre, il sorriso di mio padre, scrutavo dolorosamente il suo volto alla ricerca di tutto ciò che sognavo, senza pietà. I capelli scuri, folti, gli occhi neri come l’essenza stessa del buio, che mi facevano tremare… i movimenti precisi, lenti, fermi. La sua mano non tremava, teneva salda la penna e dipingeva la sua firma con infinita perizia, ogni particolare, ogni svolazzo, veniva vergato due volte perché fosse più nitido. Quasi mi pentì della mia firma nervosa e scarabocchiata! Ma era poco il tempo per angustiarsi, adesso i miei sogni potevano avere un volto e un nome.

Il carattere forte del mio sposo si evidenziò subito, quello stesso giorno disse a mio padre che desiderava che avesse luogo il Rukhsati, perché andassimo a vivere insieme, nonostante fossi molto giovane.
Il mio cuore palpitava, scalpitava di gioia: allora gli ero piaciuta! Aveva visto il mio cuore oltre l’imbarazzo, la timidezza e il velo! Anche se avevo avuto timore della sua serietà forse era solo un contegno che aveva tenuto, e il suo cuore traboccava per me, come il mio per lui!

Mi svegliavo la mattina con ardore nuovo, ricamavo con maggiore perizia ed ero più felice.
La mia storia sarebbe potuta continuare così, densa di aromi di cannella, pepe e curry, affaticata dal lavoro, circondata da realtà quotidiane che tanto amavo.
Mi chiedo se ogni donna, quando si trova nella sua cucina a preparare il pranzo, si renda conto che basta un piccolo attimo di fiduciosa disponibilità, perché la sua vita diventi un incubo e il suo unico desiderio diventi quello di svegliarsi e di capire che è stato tutto un sogno. 

Quell’uomo ha bussato alla porta di casa chiedendo dei miei genitori. Quando aprì e lo vidi rimasi senza parole, la luce fuori abbagliava perché la casa era in penombra, ma riconobbi subito i suoi lineamenti stagliarsi nitidi contro il sole stesso; ero sicura che fosse lì per me: non aveva avuto il coraggio di lasciarmi, voleva parlare ancora con mio padre, desiderava anticipare la cerimonia, tenere le mie mani tra le sue.
Mi chiese dell’acqua e io la portai, inutile parlare del tremore della mia mano, la consapevolezza che avevo che quello sarebbe stato un gesto consueto nella mia vita: portare l’acqua a mio marito. Cosa c’è di più normale?
-                    Ho sete.
Trafficai un attimo in cucina, ero enormemente emozionata, nella mia testa rimbombava il tono calmo e asciutto della sua voce; cercavo un bicchiere bello, il migliore che avessimo in casa, nonostante fossero tutti uguali. Versavo lentamente l’acqua che la mattina ero andata a prendere alla fontana, in quel momento, nell’attimo in cui gli porsi il bicchiere, mentre le sue mani gelide incontravano le mie, appena fresche. Quel gesto, quel dovere che avevo compiuto al mattino, cessava di essere quello di una figlia e acquisiva la dignità di quello di una moglie.

Quasi ebbi freddo, le sue dita erano gelide. Come? Non gli si era scaldato il cuore nel rivedermi?
Lo osservavo meglio, e notavo che non sorrideva. Nel mio abituccio da casa forse dovevo essergli sembrata insignificante.

Mi rincuoravo perchè che in fondo non sapevo che sarebbe venuto, mi aveva presa alla sprovvista, ma dal giorno in cui saremmo andati ad abitare sotto lo stesso tetto sarei sempre corsa da lui, avrei fatto ondeggiare il mio vestito, nei giorni di festa avrei fatto tintinnare i braccialetti, e lui avrebbe ammirato le mie mani decorate. Non era forse questo il sogno che ricamavo sulle lenzuola? Fu in quel momento, nel pieno delle mie fantasticherie ad occhi aperti, che mi versò l’acido addosso.

Pensavo scherzasse, fosse acqua e non capivo il motivo della sua fuga. Solo dopo qualche istante iniziò a bruciarmi il viso e tutto quanto il mio corpo prese ad andare a fuoco. Mio nonno non sente, era lì con me e pensava che mi fossi scottata cucinando, tentò di abbracciarmi ma il fuoco che avevo addosso veniva come alimentato. Sono scappata fuori urlando, mentre si scioglievano i miei vestiti, il mio volto, la mia bellezza, i miei sogni, i miei sedici anni e tutta la mia vita.

All’ospedale hanno cercato di riaprirmi gli occhi e le labbra, era come se il mio volto fosse stato estratto dal fango primordiale, abbandonato da Allà, informe, senza una destinazione, senza un disegno, figlio di acido e di odio. Mio marito mi ha acidificata nell’anima, perché è stata anche l’anima che ha perso la forma, l’acido mi ha attraversato il cuore.

Mi avevano raccontato che spesso i mariti fanno questo alle mogli se loro non li rispettano, se hanno un amante o per altre cose che secondo me non basterebbero comunque a dare una motivazione, ma io non so ancora perché mi è successo questo, possibile che lui abbia pensato che gli fossi infedele? Sola andavo a prendere l’acqua, a scuola ero con le amiche... Ma poi perché l’avrei dovuto tradire? Non ha visto la fiducia, la dedizione nel mio sguardo durante la firma? Sua madre non gli ha raccontato dei ricami che facevo per la nostra casa?

Ma forse lui è pazzo, lo è sicuramente: dice che sono sua moglie, mi vuole e desidera che lo sposi definitivamente. Ma come, sposarlo? Adesso? Perché? Il mio cuore gli apparteneva, io ero la sua! Perché non mi ha voluta così com’ero? Lui ha stracciato il mio volto, come poi io ho stracciato la camicia che avevo preparato perché lui mi vedesse. L’avrei messa verde e oro. Me l’ero cucita addosso, perché volevo essere bellissima ai suoi occhi. C’era una grande farfalla sul davanti che spiegava le sue ali alla vita, sotto avevo ricamato qualcosa che la conteneva, un barattolo che si intravedeva appena. Ma nessun uomo mi vedrà mai cosi. Lui ha preso il barattolo prima che la farfalla vi si affacciasse e l’ha schiantato a terra lacerandone le ali. Come può qualcuno volermi ancora? Quale follia è questa?

Non ricamo più. Le figure che prendevano l’anima dalle mie mani sono state cancellate anche loro, scappate via con tutte le cose che credevo che avrei sempre avuto.
Adesso per me il mondo è solo per metà in luce, l’altra metà è notte. Lo vedo bene perché è solo uno l’occhio che apro al mattino.

Questa è una verità che non tutti conoscono. La maggior parte delle persone, pur sapendolo, pensa che la notte sia solo una coltre buia, invece è proprio l’assenza della luce; e una volta, prima che queste realtà si confondessero fuori e dentro di me, anche io vedevo così. Ora vedo anche come gli uomini sono buoni e cattivi, della notte o della luce, solo che loro si mescolano per le strade senza che nessuno possa fare niente per distinguerli.

E adesso prego, sogno, non piango perché non ne sono più capace. Vedo il mondo intero che ha una forma e solo io non ce l’ho, sono diventata un mostro che tutti odiano, tranne la mia famiglia.
Adesso mia madre fa i biscotti, io sto in cucina ad aiutarla e vedo i suoi occhi asciutti e rossi. Vedo che quando avvicina la sua mano per accarezzarmi trema, mi chiedo quanto disgusto provi, quanto le faccia male vedere qualcosa che è cresciuto in lei essere così ripugnante, il suo sorriso mi manca. La casa nuova, che tra tante difficoltà abbiamo acquistato è come maledetta, nessuno più gioisce. Nonno da quel giorno cerca ancora di abbracciarmi, dice che sono la luce della sua casa, ma questo mi rende ancora più infelice, perché so che mente, che fa finta di non vedere com’è ridotto il volto che tante volte ha accarezzato, mio padre non ride quando mi guarda, ma dentro di se si maledice per aver consentito a quell’uomo di entrare nella nostra vita, chiuso in un silenzio, nella condanna più forte che potesse infliggersi: il distacco da mia madre e da me, il silenzio, il nulla.

Ma se mi avvicino al foglio fatico, per focalizzare devo avvicinare e allontanare la carta diverse volte. Con un solo occhio non riesco a vedere, tutto “mi sembra”, e anche adesso sembra che i segni sulla carta si inseguano senza precisione, punti di un ricamo malfatto, non progettato prima, inesperti e gettati a caso.
Non ho più niente, sono stata cancellata; rifletto, ricordo i miei disegni sulle lenzuola e penso che, come nel ricamo ogni punto ferisce il precedente nel suo cuore, lì dove è più vulnerabile, così l’essere inumano pugnala solo chi è indifeso.

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